Questo pezzo è stato scritto da Ilenia Sanna, nostra stimata professoressa di scrittura, sotto la quale giurisdizione è nato questo specifico blog. È quindi per riconoscenza, e infinita pigrizia, che le dedichiamo lo spazio della nostra newsletter numero 100.
Dal prossimo lunedì torniamo gli stessi str***i.
Il treno era fermo in mezzo alla nebbia da più di mezz’ora ormai. Il silenzio prendeva possesso del vagone e S riusciva a sentire la musica uscire dalle cuffiette del ragazzo accanto a lei. Era un tipo massiccio, barbuto, e aveva una bizzarra aria felice. Il ritardo sulla tabella di marcia non lo toccava.
S spostò il suo sguardo su quel poco che si vedeva fuori dal finestrino, in cerca di qualche pensiero strano a cui aggrapparsi per far passare il tempo più in fretta.
Di fronte a lei un signore col cappello teneva in mano un libro sporco e consumato di Salinger, pieno di orecchie. Tentò più volte di leggere, ma continuava a farsi distrarre dal modo in cui S stava cercando qualcosa nella nebbia. Guardò fuori anche lui, riguardò lei. Niente, stessa espressione indecifrabile. In lui stava emergendo un misto di curiosità e preoccupazione.
A un certo punto non poté fare a meno di disturbarla.
- Tutto bene?
S non sentì nulla.
Signorina – alzò la voce – va tutto bene?
S sobbalzò e lo liquidò in fretta con un secco “sì, grazie”.
- Se ha bisogno di un po’ d’acqua mia moglie in borsa ha una bottiglietta ancora chiusa.
- Grazie, sto bene così. Sono solo stanca.
- Sì, anch’io. Noi stiamo andando all’aeroporto, ma con questo ritardo chissà se riusciremo a non perdere il volo. Sa, nostro figlio vive a Londra da più di dieci anni e non lo vedo dallo scorso Natale. Mi manca così tanto.
S non si aspettava tanta confidenza immediata e voleva solo tornare a farsi un giro nella sua testa. Faceva spesso così quando le cose intorno a lei si fermavano. Fantasticava, si perdeva in qualcosa di più grande di lei concedendosi il lusso di distaccarsi dalla banalità del quotidiano. Quel signore però sembrava aspettarsi un dialogo, così, quasi infastidita, provò a fare conversazione:
- Cosa sta leggendo?
- Oh, un classico. Il giovane Holden.
- Ah sì, la nostra prof di italiano ce l’aveva dato da leggere in seconda liceo. Mi ricordo solo la copertina però.
- Le letture obbligate spesso fanno questo effetto.
- Già, però senza di quelle non avrei mai letto niente probabilmente.
- Lo posso capire. Il vostro è un mondo così veloce, non riesco neanche a immaginare come possiate mettervi a leggere con tutti quegli stimoli continui.
- In realtà a me piace leggere, ma mi sento più coinvolta quando guardo un film o una serie. Mi sembra di essere lì con loro e di vivere una realtà diversa. Quando leggo invece faccio fatica a immaginare quello che sta accadendo e spesso finisco per annoiarmi.
- Pensi che io ho iniziato a leggere sul serio solo intorno ai trent’anni.
- Davvero?
S alzò un sopracciglio, con sospetto. Quell’uomo aveva tutta l’aria di un vecchio topo di biblioteca.
In pochissimo tempo la conversazione aveva preso una piega molto personale, era come se avessero saltato a piè pari le chiacchiere di circostanza, gli imbarazzi, le opinioni futili e fossero arrivati in fretta alla sostanza.
Sì, prima credevo non facessero per me – rispose lui – e all’improvviso invece i libri sono diventati come delle case in cui tornare. Negli anni ho riletto le stesse storie; non so, forse perché si torna su ciò che si conosce – sospirò, attorcigliandosi i baffi bianchi – In fondo è una bella sensazione ritrovare qualcosa di sé che si è dimenticato.
- Sì è vero.
A lungo andare però, queste emozioni possono rivelarsi pericolose – continuò.
- Cosa intende?
- I libri, il cinema, la musica anche, non possono essere solo un rifugio e un luogo in cui rispecchiarsi. Si rischia di perdere il contatto con la vita vera, di sparire dietro a un’opera.
- Ma i film a volte sono vita vera, e anche le serie. Non sono tutte finte. E poi in ciò che vedo sullo schermo le cose sono chiare, belle o brutte, ma chiare. C’è un inizio, uno svolgimento e una fine. C’è un senso, o almeno un’intenzione.
S era agitata, le parole uscivano e lei se le mangiava.
- Nell’arte c’è qualcosa che nella vita manca. C’è una logica anche quando l’obiettivo è la mancanza di logica, c’è confusione strutturata, c’è quella parola in quel momento, quel gesto in quella situazione. C’è qualcuno che ci ha pensato prima. Nella vita invece è tutto un gran casino e se ti capita per caso di afferrare qualcosa devi essere pronto a perderla.
L’uomo non si scompose, la fissò sfogarsi per un tempo lunghissimo e non perse mai il filo del discorso. Si chiese cosa poteva esserci di tanto ingombrante nella vita di quella ragazza per alterarla in quel modo.
- A volte penso che il cinema riesca a dire le cose meglio, è come se mi permettesse di capire certi meccanismi che poi ritrovo nella vita di tutti i giorni. La finzione mi serve.
S aveva sempre l’impressione di dover urlare per farsi sentire. Quel giorno invece non successe, e la rabbia pian piano si affievolì. A un tratto si sentì spaesata, tanto che la sua voce si spezzò. Non sapeva bene come comportarsi, l’attenzione che le stava riservando quell’uomo era pura, sincera. Spiazzante.
Sa, credo di capire il suo discorso – intervenne lui dopo un silenzio ragionevole – credo di averne fatti anch’io tanti simili al suo. Negli anni dell’università avevo fatto amicizia con degli studenti di filosofia e passavamo ore a parlare di queste cose. Ed io ero proprio come lei, un sognatore disilluso. Forse lo sono ancora. La differenza tra quel ragazzo e chi sono oggi è che soffro meno. Sa quando si dice che i giovani dovrebbero divertirsi perché la loro è un’età meravigliosa in cui tutto è possibile?
S fece una smorfia di approvazione. Conosceva bene quelle parole.
Ecco – continuò lui – io non la penso affatto così. Essere giovani è difficile, è doloroso. Scegliere lo è. Non mi vergogno a dire che i miei anni più belli sono quelli che sto vivendo ora. Mi piacerebbe avere meno pancia e più capelli, questo è ovvio, ma il mio cuore sta meglio adesso.
Si fermò, gli era balenato in mente un concetto importante.
- Se mi permette, vorrei dirle una cosa però sul conforto che offre la cultura, una cosa che io ho capito tardi e che le darà fastidio… Un rifugio può diventare una trappola.
- Certo, lo so.
- No, sul serio. Un rifugio può diventare una trappola.
S non era del tutto convinta, ma vide nei suoi occhi una sofferenza antica.
- Non la sto invitando a rinunciare all’arte però, l’arte è nutrimento. Tutte queste storie di cui ci appropriamo, queste vite, possono trasformarsi in ottimi strumenti per capire come funziona il mondo, se diventano delle porte.
- Delle porte?
- Se aprono, insomma, a nuovi orizzonti. È sempre bello ritrovarsi in un racconto, ma è bello anche mettersi in ascolto e scoprire che esistono altri mondi al di fuori del nostro. Che il mio modo di ragionare, di amare, non è il suo e viceversa. Queste differenze, se ci fa caso, sono il nostro motore. E l’arte, con i suoi contrasti, ce lo dice chiaramente.
S a questo credeva già.
Lei è un insegnante per caso? – gli chiese a bruciapelo.
- In effetti sì.
- Ah, ecco.
- Mia moglie amerebbe la sua schiettezza, vorrei svegliarla.
- La prego no.
- Non lo farò.
Tra loro si era ormai creata una naturale confidenza, di quelle che a raccontarle parrebbero inventate.
- Lei come ha fatto a… trasformare l’arte in uno strumento?
- Io prima di insegnare facevo il farmacista.
- Come?
- Sì, il farmacista. Avevo un’attività avviata, una moglie, un figlio piccolo. Eppure passavo il tempo a leggere le storie di altri. Quando arrivava l’orario di chiusura, tiravo giù la saracinesca e rimanevo dentro. Mi ero creato perfino uno spazio, vicino al magazzino, in cui starmene lì coi miei libri. Mia moglie – posò gli occhi sulle gambe della donna affianco a lui – era molto preoccupata. Rincasavo tardi, lei pensava che fossi chissà dove e invece mi chiudevo dentro la farmacia.
Si passò una mano tra i capelli radi, le dita rugose.
S si chiese se quell’anziano signore avesse mai raccontato quella storia ad alta voce.
- E poi? Successe qualcosa?
- In realtà no. In queste cose non credo che esista l’illuminazione, è un processo. Un insieme di piccole e faticose scelte. Iniziai a non portarmi dietro i libri, a passeggiare, a parlare. Ricordo che un giorno una donna che lavorava insieme a me da molto tempo mi disse che ero tornato quello di una volta. E che le faceva piacere rivedere il suo amico. Fu strano, a me sembrava di essere sempre uguale. Forse gli altri si accorgono dei nostri cambiamenti prima di noi.
Fece una pausa.
- Comunque, qualche anno più tardi decisi di riprendere gli studi e mi laureai in lettere. Non fu per niente facile. Il bambino cresceva, i soldi erano pochi.
- Immagino.
- Però è una delle poche cose per cui ogni tanto mi ringrazio. E ringrazio chi mi è stato accanto. Ho passato i successivi trent’anni a insegnare e, per rispondere alla sua domanda, a trasformare l’arte in uno strumento e non solo in un rifugio. Non so dirle se ci sono riuscito, credo di doverci provare ogni giorno.
Sorrise.
Magari lei potrebbe trovare una soluzione diversa – azzardò – e non deve sicuramente passare ciò che ho passato io. Ognuno, in fondo, si crea la sua verità.
- Che storia.
- Di certo quella che ho fatto non è la vita che mi immaginavo a vent’anni. Ma va bene così.
Chissà come sarà la mia, pensò S.
Qualche minuto più tardi, quasi a voler segnare la fine di una conversazione perfetta, il treno ripartì generando un respiro di sollievo collettivo da parte dei passeggeri. Il rumore svegliò la donna seduta accanto a quel misterioso saggio e tra loro si creò in fretta un’evidente intimità da non disturbare. Lui la guardava come si guarda il mare.
Io devo scendere – disse S infilandosi il cappotto – questa è la mia fermata.
- Buona giornata allora, mi ha fatto piacere chiacchierare con lei. Spero di non averla infastidita con i miei racconti.
- No, anzi… Grazie.
S si incastrò tra gli altri cercando di uscire dalla carrozza. Per pochi attimi rimase imbottigliata e sospesa, con una mano stretta sulla borsa e gli occhi sulla coppia da cui si era appena separata. Le sembrò di cogliere uno di quei momenti magici che le capitava di vedere più sullo schermo che nella realtà. Cercò di fissarlo nella memoria con tutte le sue forze, chiudendo gli occhi al punto da sentire uno strano ma bellissimo dolore.
Qualcuno le pestò un piede e l’incantesimo si spezzò. Perfino nella realtà, pensò, qualcuno riusciva a rovinarle la magia cambiando canale.
Quei due però, in barba alle logiche che S si ostinava a ricercare, erano ancora lì. Il momento era passato, le persone facevano confusione, gli odori si accumulavano, l’aria mancava. E loro erano ancora lì. Presenti e altrove. Lui leggeva, lei guardava fuori. Le mani intrecciate.
S sentì un calore inaspettato inondarle le guance. Non si ricordava neanche l’ultima volta in cui aveva sentito il suo corpo sciogliersi in quel modo, come dei nodi che si disfano da soli. Un rifugio può diventare una trappola, lo capì solo in quel momento, mentre era persa a vivere di riflesso le emozioni degli altri invece delle proprie. Si stava sforzando di catturare una scena che non la riguardava invece di essere la protagonista della sua. L’uomo incrociò il suo sguardo, era perplesso nel vederla piangere, quasi imbarazzato. Alzò il cappello in segno di saluto. Lei ricambiò con la mano, timidamente, ancora ignara di quanto quel viaggio in treno le sarebbe rimasto conficcato in ogni parte del suo essere.
Ilenia